mercoledì 25 settembre 2019


Capitolo II

DEI LUOGHI E
DELLA STORIA



Peveranza si origina nelle terre dette “del Sibrium[1], antica denominazione di un territorio immenso che andava dall’Intelvi, al Piemonte, passando per Le terre luganesi e le città di Saronno e Legnano. Trasformatosi in Contado, il Seprio, e ridimensionato sempre più a causa e per colpa di molti, spiccando tra questi Milano, possiamo dirvi che nel corso dei secoli venne, questa terra, attraversata da orde di popoli e di barbari, che in essa han fatto scempio o, a seconda della volontà ricchezza. Sopravvissuta al crollo dell’impero romano, del quale Milano fu per un certo periodo Capitale - ricordiamo che qui Costantino pubblicò l’Editto che diede il là alla cristianità - affrancata al carro dei popoli nordici dai quali seppe trarre frutto e dare succo, dopo le note vicende militari che portarno sangue e distruzione ovunque, non visse mai tempi tranquilli. Sol grazie ai Longobardi, si ebbe qualche tempo di pace e di crescita; venuto Carlo Magno a porre fine al Regno di Desiderio[2], costituendo così il novello Impero, si ricominciò la solita tiritera, andando ogni imperator in contrasto con chi? Ma con i Milanesi teste calde che ambivano al potere tanto quanti i teutonici: fu così che Milano fu assediata per la prima volta nel 1158[3] dal Barbarossa, sconfitta nel 1162 con distruzione della città, ma rifattasi poi nella battaglia di Legnano poc’anzi nel 1178. Ove qui i Sepriesi si dimostrarono leali al loro Imperatore, in questi frangenti soprattutto, egli se ne dimenticò essendo stanco delle premure e della asfittica baldanza dei Milanesi. Si affrancò da essi, e lui stesso medesimo che venne in Italia più volte alle varie Diete di Roncaglia per mostrare duro polso al milanese, sì lui, il Federico II detto il Barbarossa, ringraziò i Sepriesi della loro fedeltà, sic!, regalandoli nel 1185 ai Milanesi[4] insieme ad altri 4 Contadi, e questi ovvio, non contenti, forti della loro intemerata, dispensarono vendette e sangue, diventando essi stessi distributori amorevoli di soprusi e vessazioni, distruggendo con l’inganno il Castello del Seprio nel 1287, che nella loro guerra fratricida tra Della Torre e Visconti, trascinò tutte le terre in questa rovina. Fu definita questa dalla leggenda corrente “la Battaglia delle libertà”, dei piccoli contro il potente impero, ma nella realtà si trattò solo e semplicemente della sostituzione di signori locali potenti e villani ad altri, nulla più.
Vediamo così in questo fatto ultimo il trapasso di una gloriosa e alquanto lunga presenza accaduto grazie alla serie di eventi che dalla decadenza romana al passaggio dei Goti, poi alla massima Espansione grazie alla venuta del popolo dei Longobardi, arriva al fine, in tutti sensi eccepito, cioè alla sua morte terrena, grazie come detto alla sempiterna e tanto poco amata Milano, che su di esso già da tempo aveva messo gli occhi e soprattutto le mani nel portafogli dei domini e dei signori locali, i quali nel corso dei secoli cercarono di  contrastarne la baldanza  rallentando così purtroppo soltanto la loro rovina e il loro supplizzio.
Resta da dire che solo una familia ebbe vigore e forza per osteggiare questi presunti liberatori, i milanesi, e fu quella dei Castillione, che per alcuni secoli si frapposero e contrastarono con le armi che avevano: astuzia, intelligenza, alleanze e giuramenti di fedeltà nonché matrimoni. Fu così per un certo periodo che Castiglione divenne come scrisse il Vate, “Isola di Toscana in Lombardia”. 
Quel grand’uomo del Cardinal Branda[5] dispose che nella sua terra vi fosse cultura e buon governo, ottenendo così un periodo di pace e tranquillità, ma i milanesi sempre in agguato aspettarono il tramonto dell’uomo e come sempre tramarono: le guerre non si fermarono. Divennero tappa obbligata per molti eserciti, portando con sè devastazioni e saccheggi per i secoli XV e XVI, vedasi altresì l’amorevole trattamento riservato nel 1513 dallo Sforza alla città.
Le successive vicissitudini, portarno queste terre in anonima vita se non per essere parte di questa o quella tenzone a traino sempre di altrui nobilitate, cosa assai comune a molti angoli di questo paese oggi chiamato Italia: il Feudo di Gallarate, ad esempio, di cui Peveranza faceva parte venne donato nel 1530 dal duca Francesco II Sforza a Marino Caracciolo, poi Cardinale[6]; e come sempre altri decisero del destino di queste terre passate di mano nel 1564, in uno scambio con altro feudo e ceduto a Giacomo Pallavicino Basadonna il quale senza eredi lasciò questa terra e nel 1578 Filippo II di Spagna l’assegnò a Giacomo Annibale Altemps[7]. Non passò nemmeno un secolo, che ancora cambiò il proprietario, ritornando perlomeno in mani lombarde passando nel 1655 ai Marchesi Visconti di Cislago che lo conservarono sino ad almeno la seconda meta del 1700[8]. Dovette Napoleone, anche lui conquistatore, metterci mano per chiudere questo periodo di infeudamento e di continuo mercimonio.
E infine attraverso le dominazioni spagnole, austriache, francesi, qui mi duol dover di nuovo ricordare quel gran furbo del Bonaparte che riuscì a farsi amare da un intera classe intellettuale, trasformando per un breve periodo con la Cisalpina Repubblica il 29 giugno 1797 le terre lombarde conquistate e tra le tante cose fatte pro domo sua – tra queste, ruberie incredibili – ne fece di buone, cancellando così i feudi. 
Il destin aveva steso ormai la rete e il 18 giugno del 1815 l’imperator soccombette a “Watterloo”. L’austriaco regno si andava ormai da tempo riposizionando lungo i margine del Ticino costituendo al dì 7 aprile 1815 il Regno Lombardo Veneto che ancor oggi echeggia in molti, rimpiangendo, aggiungo a ragione, la grande e mai dimenticata Regina D’Austria che mise mano alle opere dette pubbliche e negli anni che ivi trascorse lungo le nostre piane costruì ponti, strade e cimiteri e diede vita ad un rinascimento lombardo che fu amato dal popolo ma non dagli intelletual e dai nobili. Tutti vagheggianti libertà i primi, interessi gli altri, da legare al novello carro Savoiardo.
Eccoci, dopo le guerre risorgimentali, alla tanto chiamata Unità d’Italia, dove un Re piemontese “per grazia di Dio e per Volontà della Nazione” - Dio non può mai mancare a giustificare i soprusi e sempre in nome di qualcun altro si fan le cose -, decise di spegnere ogni autonomia comunale del borgo affrancando lo stesso alla vicina e poco amata Cairate. Tutto questo con Atto Regio del 24 febbraio 1869[9] che sancì come dal 1 maggio successivo il comune veniva soppresso e aggregato; il cuor pianse a molti, la rabbia trasalì ma i giuochi furon fatti, e peveranza perse la P maiuscola e divenne parte di quel “uniti” che tanto fa stima ai cairatesi, ma che al nostro cuor fece invece esecrazione: sapevamo già di contare poco e così avremmo contato ancora meno.
Con grande cruccio il nuovo secolo che sembrava brillare per la pace duratura preparava già e aveva in sè i germi di un conflitto terribile e orrorifico: gli stati europei e i privilegiati che governavano convinti d’esser illuminati costruirono scientemente come se si trattasse di un gioco, una macchina distruttiva che per 4 anni portò l’Europa al tracollo. 
Tale fu il salasso di anime e corpi che anche il paesello non mancò di versar tributo in questo grande macello d’inizio novecento; questi malefici governanti ciechi e sordi decisero il destino di molti caricandosi sulla coscienza la cancellazione di intere generazioni di giovani. Il pianto di madri, padri, mogli risuona ancora oggi nei cimiteri dove riposano le salme di questi sventurati.
Dopo un periodo di grande rivoluzionamento politico conseguenza della nefasta guerra, si giunse alfine alla odierna Provincia di Varese che dal 1927 sostituì e ancor oggi governa le terre che furono Comasca e Milanesa fino a quel punto padrone dei nostri destini.
Non dimentichiamo gli orrori della guerra ultima, figlia della scellerata grande guerra, che fece si che oltre in odio allo straniero si andò anche in odio a essi stessi. 
I peveranzesi superarono comunque ogni disgrazia, malattia, epidemia o guerra che nessun d’essi aveva mai cercato.
Non staremo quindi a rimestare di fatti e vicende storiche che subimmo lungo il cammino del racconto, ma cercheremo di segnalare eventi che riportino nel solco della storia il nostro villaggio allorquando sarà necessario e per dare informazione dei cambiamenti in corso, in modo da lasciar correre il racconto delle cose nostre e dei fatti che riguardano solo e solamente i confini di Piverantium.
La data della rinascita democratica post conflitto coincise con la solita anoressia dei cairatesi verso lo sviluppo del nostro piccolo paese. Ringraziando Iddio i cittadini peveranzesi “vollero fortemente vollero” e grazie solo a se stessi e alla loro forza d’animo ottennero la realizzazione di alcune opere importanti che il Comune di Cairate  ritardava a costruire. 
I cairatesi, smemorati, persero per strada l’Uniti, governando per anni il territorio sempre più Cairate-centrici e Cartiera dipendenti, non volendo mai guardare oltre i propri confini convinti che la mamma “cartiera” fosse eterna; infischiandosene delle giuste rimostranze di una popolazione che guardava oltre, che aveva già capito che il futuro risiedeva in altro, dimenticandosi così della nostra terra e lasciandoci come leggeremo sempre fanalino di retro e ruota di scorta buono solo per le tornate elettorali democratiche.  Questo vizio atavico fu motivo di molteplici scontri verbali all’epoca e non solo. 
Già nella conduzione pre-conflitto la miopia dei Sindaci ovvero Podestà cairatesi si dimostrò decisamente di cattivo gusto nei confronti di quanto si andava a giustamente chiedere in Peveranza.
A sostegno di ciò andremo ad elencare le rimostranze e la preoccupazione con il giusto commento di quel Sant’uomo che fu Don Giovanni Croce, parroco che testimoniò nel suo Cronicum tutto quanto accadde dalla data della sua venuta, anno 1929 alla data della sua andata, anno 1973.
Punto questo di fermo e di chiusura del nostro racconto.



[1] “Dal Lago Maggiore seguendo il corso del fiume Ticino fino a Padregnano, e da Padregnano a Cerro di Parabiago e da Parabiago a Caronno e da Caronno fino al fiume Seveso, e dal Seveso fino al fiume Tresa fin dove il Tresa si getta nel suddetto Lago Maggiore”. Ecco i confini del Seprio così come li stabiliva, il 10 febbraio 1185, l'imperatore Federico Barbarossa. Il documento, noto come Trattato di Reggio, concedeva ai milanesi le regalie che l'impero aveva nei contadi non solo del Seprio, ma anche della Martesana, della Bulgaria, di Lecco e di Stazzona (Angera) . Ma si trattava di confini ormai ristretti: a nord alla sponda meridionale del Lago di Lugano, a est al corso del Seveso, a ovest al Verbano e al Ticino, a sud al collegamento tra Seveso e Ticino all'altezza di Parabiago. Solo un pallido ricordo di ciò che era stato, nell'alto medioevo, uno dei territori più decisivi – strategicamente, militarmente, commercialmente, politicamente - per la storia non solo d'Italia, ma dell'intera Europa. In C. Brandolini E. Percivaldi, La necropoli longobarda di Arsago Seprio – Sepolture arimanne nel contado del Seprio Conferenza, in 3° Convegno Nazionale “Le presenza longobarde nelle regioni d'Italia”, Nocera Umbra (Pg), 2011.
[2] Il regno longobardo in Italia terminò nel 774, quando Carlo Magno sconfisse l'ultimo re Desiderio e si proclamò, dopo aver ribadito la sua sovranità sui Franchi, suo successore. A differenza dei Longobardi – che erano penetrati nella penisola in numero considerevole – i Franchi però si limitarono a sostituire la vecchia classe dirigente con nuovi funzionari fedeli a Carlo: in parte essi subentrarono nel possesso patrimoniale ai loro predecessori, in parte vennero remunerati con il fisco regio requisito alla corona longobarda. Si formò così un’aristocrazia militare nella quale erano reclutati anche i funzionari pubblici. In C. Brandolini E. Percivaldi, La necropoli longobarda di Arsago Seprio – Sepolture arimanne nel contado del Seprio Conferenza, in 3° Convegno Nazionale “Le presenza longobarde nelle regioni d'Italia”, Nocera Umbra (Pg), 2011.
[3] L'occasione di una rivalsa nei confronti di Milano si presentò nel 1158, quando l’imperatore Federico Barbarossa assediò per la prima volta la città. In questa occasione i nobili del Seprio e della Martesana si recarono (probabilmente) a Monza, dove l'imperatore aveva stabilito di soggiornare poco più di una settimana, per giurargli fedeltà in cambio di una cospicua somma di denaro: “così questi abbandonarono i Milanesi, ai quali avevano giurato fedeltà e con cui erano uniti da innumerevoli legami di parentela”, C. Brandolini E. Percivaldi; op. cit.
[4] http://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/toponimi/11000256/
[5] Branda Castiglioni nacque a Milano il 4 febbraio 1350, primogenito di Maffiolo e di Lucrezia di Stefano Porro. Laureatosi a Pavia in Diritto Canonico e Civile. Nel 1374 fu ascritto al Collegio dei Nobili Giureconsulti di Milano,, nel 1389 ascese alla cattedra di Diritto Canonico; fu inviato a Roma dal Galeazzo Visconti Signore di Pavia e Duca di Milano, alla corte di Bonifacio IX, qui nominato Auditore della Sacra Rota venne inviato in Germania in missione, ebbe molteplici incarichi e infine il 6 giugno 1411 venne nominato Cardinale, nel 1421 fu a Castiglione ove annunciò la ricostruzione del Borgo: 1425 inaugurazione della Collegiata, mori il 2 febbraio 1443, aveva 93 anni.
[8] Ennio Apeciti, “I rapporti tra Pievi e monasteri nel contado del Seprio nel medioevo”, in C. Tallone (dir.), Cairate e il Seprio nel medioevo. Atti del Convegno Cairatese, Gallarate, s. n., 19943, p. 46.
[9] ASVa.

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