mercoledì 25 settembre 2019


Capitolo XVIII

OCCIDENDUM
L’ANIMO UMANO E’ FEROCE




              TUTTO  nasce dal citato elenco di non confessi inserito nella Visita del Cardinal Borromeo; perché inserire in un documento scritto nomi e cognomi senza menzionare i termini di questa vicenda? quale avvenimento aveva fatto si che si dovesse tracciare questa circostanza? ma soprattutto parlare di pene e di redenzione senza trattare l’oggetto ovvero il motivo di questa situazione era cosa normale?
Chiariamo un inconfesso è un reo, un colpevole di qualche delitto che assume grave forma rispetto al carattere dell’epoca. 
In questo caso di quale delitto si erano macchiati?

E da qui, da queste domande ci siamo mossi.
Conosciamo i protagonisti della vicenda: Marco de Crustis, Battista de Crustis suo fratello, Matteo de Crustis cugino, Francesco Batta de Crustis e Andrea de Guidis; tranne quest’ultimo, sono parenti stretti del parroco Giovanni e parte del nucleo principale di abitanti del luogo.  
      Le parole del Borromeo sono decise ma poco lasciano ai fatti che portano a queste conclusioni:
In una prima versione in latino della Visita Pastorale troviamo: Non confessati: Marco de Crustis, Battista de Crustis suo fratello, Matteo de Crustis cugino, Andrea de Guidis.

Nel Documento agli atti della Pieve: Procuri il vicario foraneo che gli huo’i di Piueranza faccino pace tra loro et intanto facci amettere alla confessione et comunione Francesco Batta et Mateo de Crosta stando la promessa fatta in mano al nostro notaro della IUSTITIA di uoler far quanto da noi li sarà ordinato p. hauer la pace in satisfattione si della roba come delle cose di honore.
Si publichi domenica che uiene per interditto Andrea de Guido inconfesso et si gli proibisca l’ingresso della chiesa, se tra tanto non si confesserà, et confessandosi oltre la penitenza che se li darà, si faccia stare una festa nel tempo che si dira la messa, per un hora su la porta della chiesa con una corda al collo, et una candela morta in mano.
Ordinazione per Giovanni Rettori di Santa Maria in Peveranza, Cerchi con ogni diligenza che suo Pre et suoi parenti faccino pace con quelli altri de Crostis quanto prima.

Nel Documento agli atti della Parrocchia conferma quanto già scritto nella copia di cui sopra: Procuri il vicario foraneo che gli homini di peueranza facino pace tra loro et intanto facci amettere ala confessione et comunione Francesco Batta et Mateo de Crosta stando la promessa fatta mia mano al mio notaro della IUSTITIA di voler far quanto da me ordinato p. hamor la pace in satisfacione si della roba com delle cose di honore.
Si publichi domenicha che uiene per interditto Andrea de Guido inconfesso et se egli proibisca l’ingresso della chiesa se ha tanto non se confessera et confessandosi oltre la penitenza che se li darà si facia stare una festa nel tempo che si dira la messa per un hora su la porta della chiesa con una corda al collo e un candela in la mano.

Appare sin da subito la gravità di quanto accadde perchè mettere lo stesso Arcivescovo nella condizione di assumere un ruolo da protagonista risulta a noi al momento alquanto singolare perché messo agli atti della parrocchia e quindi mandato ai posteri, ma soprattutto per i motivi scatenanti misteriosi, e altrettanto poco chiara per i coinvolgimenti parentali e i legami tra i contendenti, ma le carte che raccontano i fatti delittuosi devono ancora celare il mistero e quindi procediamo osservando come non si chiuse con le promesse fatte al vescovo la questione, ma proseguì nel tempo, passati QUATTRO anni sembra che nulla sia cambiato.

In epistola [1] spedita da Monsignor Cardani Vicario Foraneo a sua eminenza Giovanni Battista Castelli Vicario Generale, datata 26 aprile 1574 si descrive così la situazione: 
circa la cosa de quei di Peveranzo; commisi la cura delle anime interessate in questo, solo però de i maschi, al Curato di Cairato dal quale si confessa anche il prete di peveranzo et sin adesso dette anime stanno suspesse dalla communione. Il detto curato m’ha riferito che ha fatto le debite essortazioni a tutti costoro, si come l’anche fatto prima che adesso, et per carità, et ad instanza ancora della parte, et maggiormente col prete, ma non haver ne potuto cavare frutto alcuno.V’è stato questo da ventaggio adesso, che hanno risposto un tratto quasi dolendosi che ogni uno ricerchi da loro questa remissione, et nisuno parli del risarcimento de i loro danni, come che, se si parli anco di questo, et siano satisfatti, siano per far poi la remissione; il che io non credo, per che io so che molti, et io fra gli altri havendone parlato, l’ho di prima offerto detto recersimento a stima d’uno o duoi amici communi; pur ho comesso a quel Curato di Cairato che vegga di serargli a questo passo che promettano di far la remissione, essendogli fatto detto recersimento, ma non so se l’otterrà, per che al giuditio mio, et del più delli altri che si sono intromessi in questo fatto, il male sta nel prete, se bene ò per l’ubedienza, o per timore ha fatto la remissione per la sua parte, o più presto per che sa che poco giovarà senza quella delli altri; et io n’ho hauto un pateat autentico di detta remissione rogato per un messer Ottaviano Pusterla habitante in lonà Ceppino adì 9 del presente mese d’Aprile; et se V.S. R.ma vorrà maggiore chiarezza che il diffetto venga dal prete, faccia chiamare il Curato di Boladello, il quale è informato del tutto; et circa questo negotio, s’io fossi sano, m’adoprerei più oltra per far quel bene ch’io potessi…”

Si parla di danni da risarcire, non è dato a sapere possiamo solo immaginare.

La durezza della lettera ci racconta di persone che nutrono sentimenti negativi e che si alimentano altresì di intenti vendicativi ma Vediamo il seguito… che appare nella sua tragicità più nefasta.
Un anno dopo lo stesso Cardani prendeva le redini della vicenda, come l’atto del Notaio Pusterla[2] del 24 ottobre 1575 ci racconta ( di quello sopra citato nella lettera del Cardani non ho traccia) vero che lo fa un po’ confusamente, ma iniziano a delinearsi fatti e protagonisti:

Don Ambrosio e Giovanni Angelo fratelli de Crustis figli del defunto don Giovanni Pietro entrambi residenti a Peveranza da una parte (su richiesta di me, notaio infrascritto, che agisco a nome di Stefano Crosta - la parte tra parentesi è stata poi cancellata) e Battista e Marco, fratelli figli del defunto Francesco, e Matteo e Nicola fratelli figli del defunto Angelo, e Paolo, Angelo(?), nome illeggibile, e Antonello anche loro fratelli figli del defunto Antonio, tutti de Crustis, tutti residenti a Peveranza, dall'altra parte, fanno tra di loro un compromesso e un arbitrato scegliendo come arbitri il Molto Reverendo Presbitero Francesco Cardano prevosto della chiesa di Santo Stefano di Olgiate Olona e i reverendi Giacomo(?) e Giacomo Antonio fratelli Castiglione(?) per ogni danno causato da Don Ambrogio e Giovanni Angelo in occasione dell'omicidio nella persona del fu Benedetto figlio del predetto Don Ambrosio e di Bartolomeo, figlio del predetto don Giovanni Angelo, ma solo a patto che i detti arbitri possano e abbiano il potere di prendere tutte le decisioni in qualunque giorno alla presenza di tutte le parti e a patto che la decisione possa essere verificata sotto la pena di cinque scudi per la parte che eventualmente chiedesse un reclamo. E a patto che le dette parti siano costrette ad accettare la decisione finale e così Battista e consorti de Crustis sono costretti a fare pace e remissione nei confronti di Stefano de Crustis per l'omicidio
Atto nella casa di Don Giovanni (illeggibile) de Crustis nel luogo di Peveranza.

Ecco quindi in tutta la sua tragicità il fatto criminoso, non era una questione di semplice litigio ma di omicidio tra consanguinei; nella sua breve cronistoria il Notaio ci dice che Stefano Crosta è un assassino, egli uccide Benedetto e Bartolomeo suoi cugini, da lì derivano liti e probabilmente tentativi di vendetta o faida che dir si voglia. Ma la questione ormai si inasprisce e si arriva così a ben 11 anni dopo con quello che all’epoca era lo strumento per appianare le cause penali, l’Atto di Remissione, ovvero in questo accordo fra le parti si intravvedono altri elementi che determinano ancora di più gli eventi ma non il movente: 9 Ottobre 1581[3] 

I fratelli reverendo Signor presbitero Giovanni, Bernardino, Filippo e Giovanni Pietro Crosta figli del fu Ambrogio e fratelli dell'infrascritto fu Benedetto, e Giovanni Angelo Crosta figlio del fu Giovanni Pietro ed erede dell'infrascritto Bernardino, tutti residenti a Peveranza, fanno un'ampia remissione di fronte a me, notaio, che stipula a nome di Stefano Crosta figlio del fu Francesco, per quanto assente, nominativamente per quella o quelle ferite o colpi, se ce ne furono, inflitte da Stefano Crosta e dall'ora fu Alessandro suo fratello, all'ora fu Benedetto Crosta figlio del fu Ambrogio e all'ora fu Bartolomeo Crosta figlio del soprascritto Giovanni Angelo, per i quali colpi Benedetto e Bartolomeo morirono, e per l'omicidio o omicidi e le ferite portata o portate da Stefano e all'ora fu Alessandro nella persona dei detti Benedetto e Bernardino, e per tutte le singole querele portate per mezzo del console del detto luogo di Peveranza e per tutte le inquisizioni, condanne e danni seguiti e che possono seguiti, e inoltre di tutti i danni subiti dai detti remittenti, dicendo le dette cose al Magnifico Signore Capitano e Pretore di Gallarate, e Vicario del Seprio etc...

Le vittime della follia omicida di Stefano e di Alessandro suo fratello sono due, Benedetto figlio di Ambrogio e Bartolomeo figlio di Giovanni Angelo.

Ambrogio e e Bartolomeo, figli del defunto Giovanni Pietro, sono fratelli conviventi nella stessa casa, Stefano è fratello di Battista e Marco de Crosti figli del defunto Francesco.

Sono primi cugini, presumendo che Francesco e Giovanni Pietro siano stati fratelli in vita.

Credo a questo punto sia meglio chiarire cos’è l’Atto di Remissione; nel '500-'600 la giustizia punitiva era molto severa e prevedeva facilmente la condanna a morte o a vogare nelle navi dell'impero, non vi era un corpus legislativo che prevedeva attenuanti o altro non si scampava dalla pena..

Però - probabilmente per snellire la giustizia! veniva lasciata alle famiglie dell'ucciso la possibilità di accordarsi mediante l'intermediazione di un notaio - erano gli atti di remissione -; è quello che succede anche qui: l'omicidio ha riguardato ben tre gruppi familiari dei Crosta, però non si sa quando il fattaccio sia successo, nel frattempo muore uno dei due assassini, Alessandro, forse la remissione non ha fatto in tempo ad arrivare e ha subito la condanna a morte forse è scappato non lo sappiamo.

Gli assassini, Stefano e Alessandro, erano fratelli figli di Francesco morto nel 1581 (quel Francesco per il quale si chiede la riammissione alla confessione).

Le vittime appartengono a due differenti nuclei familiari: Benedetto fratello del parroco non risiedeva in Peveranza[4] , Bartolomeo è erede di quel Giovanni Angelo che viene segnato come figlio del defunto Giovanni Pietro.

Data l'uguaglianza del nome del padre di Giovanni Angelo con uno dei fratelli del parroco mi fa pensare che il defunto Giovanni Pietro possa essere stato un fratello del defunto Ambrogio (padre del parroco) e che quindi lo stesso Giovanni Angelo sia un cugino del sacerdote... insomma, un quadro un poco confuso! Che presenta un regolamento di conti interno ad un nucleo famigliare ristretto.

Restano alcune altre questioni aperte ad esempio Marco Crosta e gli altri esclusi dal sacramento che ruolo hanno avuto? E Andrea de Guido che viene così severamente giudicato? 

Mi racconta il dottor Mazzucco “Il '500 era un secolo piuttosto violento... in quegli stessi anni il marito della sorella di un Morina ammazzò il prete di Caronno Ghiringhello. In quel caso non si giunse a un accordo, lui scomparve nel nulla e tutti i suoi beni (anche abbastanza numerosi!) vennero confiscati dal governo e rivenduti, e i gli avi furono costretti ad andare continuamente avanti e indietro da Milano per riavere indietro almeno i soldi della dote della sorella...”[5].

Ed ecco ora quello che possiamo considerare l'ultimo atto della vicenda, il testamento di Stefano Crosta[6], uno dei due incriminati per l'omicidio.

Se, come probabile, Stefano è morto poco dopo aver fatto testamento, è potuto tornare a Peveranza per ben poco tempo! Tra l'altro senza nemmeno lasciare eredi diretti cioè figli.

Domenica 26 Luglio 1584 Stefano Crosta, figlio del defunto Francesco, residente a Peveranza (dunque gli accordi sono andati a buon fine e l'omicida è potuto tornare a vivere a casa) sano di mente per quanto malato di corpo (licet eger corpore) decide di fare il presente testamento per lasciare le sue cose in ordine. Per prima cosa ordina al suo erede Battista di far celebrare per dodici anni dopo la sua morte 8 messe annuali a morto nella chiesa in cui verrà seppellito (chiesa che curiosamente non viene indicata: prima si trovava un largo spazio vuoto proprio dove di norma vengono disposte questioni di questo tipo. Si presuppone che sia la chiesa di Peveranza, data la presenza del presbitero Giovanni al capezzale del malato!). 
Lascia in legato a suo fratello Marco 200 lire da dargli dopo la mia morte. E lascio ad Angela Crosta, mia sorella, sposata con Matteo Premiri(?) di Cairate 12 lire che il suo erede deve pagare dopo la sua morte. 
Per il resto lascia suo erede universale Battista Crosta, suo fratello. 
Atto nella stanza del testatore sita come sopra alla presenza di mastro Battista Oldrini figlio del fu mastro Giovanni Pietro di Cairate come pronotario. 
Testimoni: Alessandro Macchi figlio del fu Signor Andrea residente nelle cascine dei Marelli nel territorio di Rovate, Giovanni Oldrini figlio del defunto Ambrogio(?) e Battista de Grimigi(?) di fu Nicola(?) entrambi residenti a Cairate e Giovanni Boretti, il signor Presbitero Giovanni Crosta figlio del defunto Ambrogio e Ambrogio Saporiti figlio del defunto Agostino, tutti residenti a Peveranza.

A distanza di ben 14 anni dalla prima prova di quanto accadde, con questo atto possiamo mettere la parola fine su questa vicenda così dolorosa e lacerante per i Crosta, ma che lascia molte questioni aperte, il movente, la fine di Marco, cosa c’entrasse  il Di Guido,  le conseguenze per tutti e gli eventuali strascichi e la spirale d’odio e rancore che un fatto del genere in questa epoca poteva sollevare.




[1] L’Alto Milanese all’epoca di Carlo e Federico Borromeo, Società e territorio, Atti del convegno di studi – Gallarate Busto 30 novembre/1 dicembre 1984, Gallarate 1987. G. Colombo, La Pieve di Gallarate al Tempo di San Carlo nella corrispondenza del Vicario Foraneo Giacomo Francesco cardani. Pp. 302,303.
[2] ASM Notarile 15412 Notaio Pusterla Antonio Maria Qm Marco.
[3] ASMi, Notaio Sebastiano Martignoni Cartella 12547: il documento tradotto e analizzato dal Professor Mazzucchi, ci racconta una vicenda complessa che sicuramente è comune, visto il periodo in cui siamo, a molte altre località, la violenza era un elemento con il quale si doveva far di conto ogni giorno in queste lande dove giustizia e ingiustizia erano legate da un filo invisibile.

[4] non appare nello Stato delle Anime del 1574
[5] Testimonianza documentata dai fatti e dagli atti.
[6] ASM, Not. Battista Oldrini, Cartella 15417.

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